giovedì 23 gennaio 2014
La leggenda del crisantemo
Una leggenda dal Giappone: “La leggenda del crisantemo”
In una casetta del bosco vivevano
una mamma e una bambina. Intorno alla casetta
sbocciavano bellissimi fiori; quando
giunse la brutta stagione,
tutti i fiori appassirono.
Solo uno era rimasto alla bimba, perché ella lo
aveva conservato in casa. Un giorno la
mamma della bimba si ammalò gravemente; a
llora colse il fiore e l’offrì alla Madonna,
perché facesse guarire la sua mamma.
Mentre pregava sentì una voce: << La
tua mamma vivrà tanti anni quanti sono i
petali del fiore che mi hai donato!>>. La bimb
a contò i petali del fiore e vide che erano
pochi; allora per amore della mamma, ridusse i poc
hi petali in tante striscioline. Così i
petali divennero molti e la ma
mma visse per tanti anni.
o, il fiore dai mille petali
domenica 5 gennaio 2014
Il gatto con gli stivali( di Charles Perrault)
Ai tre figli che aveva un mugnaio non lasciò altro che un mulino, un somaro e un gatto. La divisione fu presto fatta senza bisogno di notaio o procuratore, che s'avrebbero mangiato essi tutto il misero patrimonio. Il maggiore ebbe il mulino, il secondo l'asino, e l'ultimo il gatto. Non si consolava questi che gli fosse toccata una così magra porzione. "I miei fratelli, diceva, potranno, mettendosi insieme, guadagnarsi onestamente la vita; per me, mangiato che avrò il gatto e fattomi della sua pelle un manicotto, bisognerà che muoia di fame"
Il Gatto, che udì queste parole senza però farne le viste, gli disse in tono serio e posato: "Non vi affliggete, padroncino mio, datemi solo un sacco e fatemi far un par di stivali per andar nelle macchie, e vedrete che la vostra sorte non è poi tanto cattiva quanto credete."
Benchè poco ci contasse, il padrone del Gatto non disperò di cavarne un certo aiuto, tante bravure gli avea visto fare per chiappar sorci e topi, ora sospendendosi per le zampe di dietro ora facendo il morto sulla farina.
Avuto il fatto suo, il Gatto s'infilò gli stivali, si mise in collo il sacco, ne afferrò i cordoni con le zampe davanti e se n'andò in una conigliera dove i conigli abbondavano. Empì il sacco di crusca e di cicerbite, e stendendosi come se fosse morto, aspettò che qualche giovane coniglio, poco esperto delle malizie di questo mondo, s'insinuasse nel sacco per mangiarvi quel che vi avea messo.
Coricatosi appena, il colpo fu fatto; uno storditello di coniglio entrò nel sacco, e mastro Gatto strinse subito i cordoni, lo prese e lo uccise senza misericordia.
Tutto glorioso della preda, se n'andò dal re e domandò udienza. Lo fecero montare agli appartamenti di Sua Maestà, e là, fatto al Re un profondo inchino, disse il Gatto: "Ecco, Maestà, un coniglio di conigliera che il sig. marchese di Carabas (così gli venne in testa di chiamare il suo padroncino) mi ha incaricato di presentarvi. — Dirai al tuo padrone, rispose il Re, che del regalo son molto compiaciuto e lo ringrazio."
Un'altra volta, andò a nascondersi in un campo di frumento, tenendo sempre il sacco aperto, e quando due pernici vi furono entrate, tirò i cordoni e le prese tutt'e due.
Poi se n'andò dal Re, e gliele offrì come avea fatto dei conigli. Il Re accettò volentieri le due pernici e gli fece dare una mancia.
Per due o tre mesi continuò il Gatto a portare al Re di tanto in tanto un po' di caccia da parte del suo padrone. Saputo un giorno che il Re doveva andar a spasso in riva al fiume, insieme con la figlia, che era la più bella principessa di questo mondo, disse al suo padroncino: "Se mi date retta, la vostra fortuna è fatta: non avete che a fare un bagno nel fiume, in un posto che io vi indicherò, e poi lasciate fare a me."
Il marchese di Carabas seguì il consiglio del Gatto, senza indovinare a che potesse servire. Mentre faceva il bagno, si trovò a passare il Re, e il Gatto si diè a gridare con quanta ne aveva in gola: "Aiuto! aiuto! il marchese di Carabas annega!" A quel grido il Re si affacciò allo sportello, riconobbe il Gatto che tante volte gli avea portato della caccia, e ordinò alle sue guardie di accorrere subito in aiuto del marchese di Carabas.
Mentre tiravan fuori dall'acqua il marchese di Carabas, il Gatto si avvicinò alla carrozza e disse al Re che due ladri erano venuti ed avean portato via i vestiti del marchese, per quanto egli si sgolasse a gridare al ladro! Il furbaccio gli avea nascosti sotto una grossa pietra.
Il Re ordinò subito agli ufficiali della guardaroba di andare a prendere il più sfarzoso vestito che vi fosse pel sig. marchese di Carabas. A lui stesso fece il Re mille gentilezze, e poichè i bei vestiti rialzavano la bella figura del giovane, la figlia del Re lo trovò molto di suo gusto e non appena il marchese di Carabas le ebbe rivolto due o tre occhiate rispettose ma un po' tenere, se ne innamorò fino alla follia.
Il Re se lo fece montare in carozza e lo volle compagno della passeggiata. Il Gatto, tutto lieto di veder riuscire il piano architettato, si diè a fare il battistrada e avendo visto dei contadini che falciavano un prato, disse loro: "Buona gente che falciate, se voi non dite al Re che questo campo appartiene al signor marchese di Carabas, sarete trinciati e tritati come la carne per le salsicce."
Non mancò il Re di domandare ai falciatori a chi apparteneva quel prato che falciavano. "Al signor marchese di Carabas, risposero tutti ad una voce, tanto avevano avuto paura della minaccia del Gatto.
"Avete costì una bella eredità, disse il Re al marchese di Carabas. — Voi vedete, Maestà, rispose il marchese, è un prato che tutti gli anni mi dà un reddito abbondante."
Mastro Gatto, che correva sempre avanti, incontrò dei mietitori e disse loro: "Buona gente che mietete, se voi non dite che tutto questo frumento appartiene al signor marchese di Carabas, sarete trinciati e tritati come carne di salsicce" Il Re, che passò subito dopo, volle sapere di chi fosse tutto quel frumento" Del signor marchese di Carabas » risposero i mietitori, e il Re se ne rallegrò di nuovo col marchese. Il Gatto che precedeva sempre, ripeteva la stessa storia con quanti incontrava; e il Re stupiva dei grandi possedimenti del signor marchese di Carabas.
Mastro Gatto arrivò finalmente ad un bel castello, il cui padrone era un Orco, il più ricco che mai fosse; poichè tutte le terre già dal Re attraversate dipendevano da quel castello. Informatosi di quel che fosse cotest'Orco e di quanto sapesse fare, il Gatto domandò di parlargli, dicendo che non avea voluto passare così vicino al suo castello senza aver l'onore di fargli riverenza.
L'Orco lo accolse con tutta quell'affabilità di cui un Orco è capace e lo fece riposare.
"Mi si è dato ad intendere, disse il Gatto, che voi avete il dono di mutarvi in qualunque sorta di animale, che potete, per esempio, diventar leone o elefante. — È vero, rispose burbero l'Orco, e per dimostrarvelo, adesso vedrete come mi trasformo in leone." Il Gatto fu così spaventato di vedersi davanti un leone, che spiccò un salto fin sulle grondaie, non senza fatica e pericolo, a motivo degli stivali che non erano buoni per camminar sui tetti.
Qualche tempo dopo, vistogli mutar forma il Gatto ridiscese e confessò di avere avuto una gran paura. "Mi hanno pure assicurato, disse, ma io non ci credo, che voi potete anche prender la forma dei più piccoli animali, di cambiarvi per esempio in topo o sorcio: vi confesso però che la cosa mi pare impossibile. — Impossibile? esclamò l'Orco, adesso vi fo vedere." E detto fatto si mutò in un topolino, che si diè a correre sul pavimento. Subito il Gatto gli saltò addosso e ne fece un boccone.
Il Re intanto, passando pel castello dell'Orco, volle entrarvi. Il Gatto che udì il rumore della carrozza sul ponte levatoio, corse incontro e disse al Re: "Benvenuta, Maestà, nel castello del signor marchese di Carabas! — Come, signor marchese! esclamò il Re, anche questo castello è vostro? Niente può esser più bello di questo cortile e di tutte le fabbriche circostanti. Vediamone l'interno, di grazia."
Il marchese diè la mano alla principessina, e, tenendo dietro al Re che saliva, entrarono in un'ampia sala dove trovarono una lauta colazione che l'Orco avea fatto preparare per certi suoi amici, che doveano venire quel giorno stesso, ma che non aveano osato entrare, sapendo della presenza del Re. Ammaliato dalle buone qualità del marchese di Carabas, come già la principessina ne andava matta, e vedendo i molti beni da lui posseduti, il Re gli disse, dopo aver bevuto cinque o sei bicchieri di vino: "Sol che vogliate, signor marchese, voi potete divenir mio genero". Il Marchese, facendo inchini sopra inchini, accettò l'onore che il Re gli faceva, e quel giorno stesso si sposò la principessa. Il Gatto divenne gran signore, e non corse più dietro i topi che per solo passatempo.
Il principe ranocchio ( e la principessa)
Nei tempi antichi, quando desiderare
serviva ancora a qualcosa, c'era un re, le cui figlie
erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che
perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava,
quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c'era un gran
bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana:
nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco
e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva
una palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il
suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa non ricadde nella manina ch'essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare.
E mentre così piangeva, qualcuno
le gridò: - Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà
ai sassi.
Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa deforme. Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! - disse, - piango per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte.
- Chétati e non piangere, -
rispose il ranocchio, - ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco
il tuo balocco?
- Quello che vuoi, caro ranocchio, - diss'ella, - i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro. Il ranocchio rispose: - Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro. - Ah sì, - diss'ella, - ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla. Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! » Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. - Aspetta, aspetta! - gridò il ranocchio: - prendimi con te, io non posso correre come fai tu. Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non l'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte. Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro - plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: - Figlia di re, piccina, aprimi! Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: - Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante che vuol rapirti? - Ah no, - rispose ella, - non è un gigante, ma un brutto ranocchio. - Che cosa vuole da te? - Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me. Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare: - Figlia di re, piccina, aprimi! Non sai più quel che ieri m'hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi! Allora il re disse: - Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va' dunque, e apri -. Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: - Sollevami fino a te. La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: - Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme. La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: - Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire. La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: - Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno. Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: - Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre. Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: - Adesso starai zitto, brutto ranocchio! Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all'infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e dietro c'era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio! - No, padrone, non è il cocchio, bensì un cerchio del mio cuore, ch'era immerso in gran dolore, quando dentro alla fontana tramutato foste in rana.
Per due volte ancora si udì
uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe
pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto
i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché
il suo padrone era libero e felice.
fratelli Jachob e Wilhelm Grimm
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sabato 4 gennaio 2014
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