domenica 15 dicembre 2013

a oriente del sole e a occidente della luna(fiabe nordiche)

C’era una volta un povero contadino con la casa piena di figli, ma non aveva gran che da offrir loro per nutrirsi e vestirsi, belli erano tutti ma la più bella, incredibilmente bella, era la figlia minore.
Era un giovedì sera alla fine dell’autunno, fuori il tempo era brutto ed era molto buio, pioveva e tirava un vento da far scricchiolare le pareti; sedevano intorno al camino e tutti avevano qualcosa da fare. All’improvviso qualcuno bussò tre volte alla finestra. L’uomo uscì per vedere cosa succedeva, e una volta fuori si trovò di fronte un grandissimo orso bianco. “Buonasera”, disse l’orso bianco. “Buonasera”, rispose l’uomo. “Se mi darai la tua figlia minore ti farò tanto ricco quanto ora sei povero” disse quello. Bè, all’uomo sembrava proprio una fortuna poter diventare ricco, ma pensò che prima avrebbe dovuto parlare con la figlia, così rientrò e disse che fuori c’era un grosso orso bianco che prometteva di farli diventare davvero ricchi se solo avesse potuto averla. La ragazza disse di no, non voleva, e così l’uomo uscì di nuovo e si accordò con l’orso bianco che che tornasse a sentire una risposta il prossimo giovedì sera. Intanto a casa cominciarono a tormentare la fanciulla, elencandole tutte le ricchezze che avrebbero ottenuto e i vantaggi che anche lei avrebbe avuto. Alla fine la ragazza acconsentì. Si lavò e rappezzò i suoi stracci, si adornò meglio che poteva e si preparò al viaggio. Non era molto ciò che aveva da portare con sé. Il giovedì sera l’orso venne a prenderla, lei gli montò in groppa con il suo fagotto e così si allontanarono. Dopo aver fatto un pò di strada l’orso bianco disse: “Hai paura?” No, non ne aveva. “Bè, tieniti ben stretta alla mia pelliccia e non ci sarà alcun pericolo” le disse.

Cavalca, cavalca, alla fine giunsero a una grande montagna. Allora l’orso bianco bussò, si aprì una porta ed entrarono in un castello, tutte le stanze erano illuminate, tutto splendeva d’oro e d’argento e poi c’era una grande sala con una tavola apparecchiata, ed era una tale meraviglia che non ci crederesti. Allora l’orso bianco le diede un campanello d’argento: se voleva qualcosa non aveva che da suonarlo, e l’avrebbe avuta. Dopo aver mangiato, e si faceva sera, le venne sonno per il viaggio e pensò che si sarebbe coricata volentieri; allora suonò il campanello, e quasi non l’aveva toccato che si ritrovò in una stanza con un letto fatto, così bello che chiunque avrebbe voluto dormirci, con piumini di seta e cortine e frange d’oro, e tutto quello che c’era era d’oro e d’argento. Ma quando si fu coricata ed ebbe spento la luce, una persona entrò e si coricò con lei: era l’orso bianco, che la notte gettava la sua pelle. La ragazza non riusciva mai a vederlo, perché veniva sempre dopo che aveva spento al luce e prima che facesse giorno se n’era già andato. Per un pò tutto andò bene, poi però la giovane si fece silenziosa e triste, perché stava sola tutto il giorno e aveva nostalgia dei genitori e dei fratelli. Quando l’orso bianco le chiese cosa avesse, gli confessò che era molto noioso stare sempre sola e che aveva nostalgia, ed era così triste perché non poteva andare da loro. “A questo c’è rimedio” disse l’orso bianco, “ma devi promettermi di non parlare da sola con tua madre, ma solo quando possono sentire anche gli altri. Ti prenderà per mano” continuò, “e ti vorrà portare in una stanza per parlare da sola con te, ma tu non devi farlo, altrimenti renderai infelici entrambi.”
Una domenica l’orso bianco venne a dire che ora potevano andare dai suoi genitori. E così partirono, la ragazza in groppa, e camminarono per un bel pò; alla fine giunsero a una grande fattoria bianca dove le sorelle e i fratelli correvano e giocavano, ed era così bello a vedersi. “Lì abitano i tuoi genitori” disse l’orso, “ma non dimenticare quello che ti ho detto, altrimenti farai la nostra infelicità.” No di certo, non se ne sarebbe dimenticata, e quando la ragazza ebbe raggiunto la fattoria, l’orso bianco tornò da dove era venuto. Nel vederla, i genitori furono incredibilmente contenti; gli sembrava di non poterla mai ringraziare abbastanza per quello che aveva fatto per loro: adesso stavano così bene, e volevano tutti sapere come stava lei, a casa sua. Lei stava benissimo, e aveva tutto ciò che poteva desiderare, disse; cos’altro disse non lo so bene, ma certo non vennero a sapere niente di preciso.
Il pomeriggio, dopo aver pranzato, andò come aveva predetto l’orso bianco: la madre voleva parlare da sola con la figlia in una stanza. Ma lei ricordò quello che aveva detto l’orso e non voleva assolutamente. “Avremo sempre tempo”, disse, “per dirci quello che abbiamo da dirci.” Come fu come non fu, la madre alla fine riuscì a convincerla, così lei dovette dire come stavano le cose. Allora raccontò come la sera, dopo che aveva spento la luce, veniva sempre una persona a coricarsi nel suo letto ma non riusciva mai a vederlo, perché prima che facesse giorno se n’era andato. Era molto triste, perché avrebbe tanto voluto vederlo, e di giorno stava tutta sola e si annoiava. “Ah, quello che dorme con te può anche essere un troll” disse la madre. “Ora ti darò un consiglio per vederlo, ti darò un mozzicone di candela da nascondere in seno: illuminalo mentre dorme, ma stà bene attenta a non lasciargli gocciolare addosso del sego.” Bè, lei prese la candela e se la nascose in seno, e la sera l’orso bianco venne a prenderla. Dopo che ebbero fatto un pò di strada, l’orso chiese se non fosse andata proprio come aveva detto lui. Sì, non poteva negarlo. “Se hai dato retta ai consigli di tua madre, hai reso infelici entrambi, e fra noi tutto è finito.” concluse. No, non aveva dato retta ai consigli materni.
Dopo essere arrivata a casa ed essersi coricata, tutto andò come al solito, e qualcuno venne a coricarsi accanto a lei. Ma a notte fonda, quando sentì che dormiva, si alzò, accese la candela e lo illuminò,
e allora vide che era il più bel principe che si potesse vedere, e fu subito presa da lui al punto che le sembrò di non poter vivere se non lo avesse subito baciato: e lo baciò, ma intanto fece cadere sulla sua camicia tre gocce di sego bollente, e lui si svegliò. “Ah, cos’hai fatto adesso?” chiese lui. “Hai reso infelici entrambi. Se solo avessi resistito un anno sarei stato salvo: ho una matrigna che mi ha fatto un incantesimo, così sono un orso bianco di giorno e uomo di notte. Ma ora è finita tra noi, devo lasciarti per andare da lei, abita in un castello che si trova a oriente del sole e a occidente della luna, e lì c’è anche una principessa con un naso lungo tre braccia, e ora me la devo sposare”.
La ragazza pianse e si disperò ma non c’era niente da fare, lui doveva partire. Allora gli chiese se non poteva accompagnarlo. No, non era possibile. “Se mi dici la strada verrò a cercarti: questo almeno posso farlo?” disse lei. Si, questo poteva farlo, ma non c’era nessuna strada, era a oriente del sole e a occidente della luna, e lei non ci sarebbe mai arrivata. La mattina, quando si svegliò, il principe e il castello non c’erano più: era coricata su un piccolo spiazzo verde in mezzo a un bosco scuro e fitto, e accanto aveva lo stesso fagotto di stracci che aveva portato da casa. Dopo essersi stropicciata gli occhi e aver pianto a lungo, si mise in marcia e camminò per molti, molti giorni, finché giunse a una grande montagna. Lì davanti era seduta una vecchia che giocherellava con una mela d’oro. Le chiese se conosceva la strada per andare dal principe che stava con la matrigna, in un castello a oriente del sole e a occidente della luna e che doveva sposare una principessa dal naso lungo tre braccia.
“Come lo conosci?” chiese la vecchia, “Eri forse tu la ragazza che doveva sposarlo?” Sì, era lei, rispose.
“Così sei tu”, disse la vecchia. “Bè, io so solo che abita nel castello a oriente del sole e a occidente della luna e tu ci arriverai tardi o non ci arriverai mai; ma ti presterò il mio cavallo e con quello potrai andare dalla mia vicina, lei forse saprà dirtelo; una volta arrivata, basta che tu dia un colpetto al cavallo sotto l’orecchio sinistro chiedendogli di tornare a casa. E questa mela d’oro puoi portarla con te.” La ragazza salì a cavallo e cavalcò per molto, molto tempo, e alla fine arrivò a una montagna, e davanti c’era seduta una vecchia con un’arcolaio d’oro. Le chiese se conosceva la strada per il castello. Quella rispose come l’altra, che non ne sapeva nulla, ma certo era a oriente del sole e a occidente della luna: “E tu ci arriverai tardi o non ci arriverai mai, ma io ti presterò il mio cavallo e con quello potrai andare dalla mia vicina, lei forse saprà dirtelo; una volta arrivata, dovrai solo dare un colpetto al cavallo sotto l’orecchio sinistro e chiedergli di tornare a casa.” Poi le diede l’arcolaio, dicendole che le sarebbe tornato utile. La ragazza salì a cavallo e cavalcò per molto, molto tempo, e alla fine arrivò a una montagna, e davanti c’era seduta una vecchia che filava con una conocchia d’oro. Le chiese se conosceva la strada per andare dal principe, e dove si trovava il suo castello. Andò nello stesso modo, e neanche quest’ultima conosceva la strada meglio delle altre, era a oriente del sole e a occidente della luna, questo lo sapeva; ma anche lei le prestò il suo cavallo e la indirizzò dal vento dell’est affinché, disse, chiedesse a lui: “Forse è pratico dei luoghi e ti può soffiare fin lì. Una volta arrivata, basta che tu dia un colpetto al cavallo sotto l’orecchio, e così tornerà a casa” disse la vecchia.Cavalcò per molti e molti giorni ancora, per un tempo lunghissimo, ma alla fine arrivò, e chiese al vento dell’est se lui poteva indicarle la strada per arrivare dal suo principe. Sì, di quel principe aveva sentito parlare, disse il vento dell’est, e anche del castello, ma la strada non la conosceva, perché non aveva mai soffiato fin là. “Ma se vuoi posso accompagnarti da mio fratello, il vento dell’ovest, forse lui può saperlo perché è molto più forte di me; puoi salirmi in groppa, ti porterò fin lì”.
”. Lei fece come gli aveva detto e partirono veloci. Quando furono giunti a destinazione, entrarono in casa e il vento dell’est spiegò che la ragazza che aveva con sé era quella che avrebbe dovuto sposare il principe del castello a oriente del sole e a occidente della luna: si era messa in viaggio per cercarlo, e lui l’aveva accompagnata fin lì per sentire se il vento dell’ovest sapesse dove si trovasse. “No, così lontano non ho mai soffiato” disse il vento dell’ovest, “ma se vuoi ti accompagnerò dal vento del sud, che molto più forte di noi, ed è andato in giro da tutte le parti: forse lui potrà dirtelo. Puoi montarmi in groppa, ti porterò lì”. Così fece e andarono dal vento del sud, e non credo ci abbiano messo molto. Quando arrivarono, il vento dell’ovest chiese se poteva indicarle la strada per il famoso castello, perché la fanciulla era quella che avrebbe dovuto sposare il principe. “Ah si”, disse il vento del sud, “è lei? Ai miei tempi sono andato in giro da tutte le parti” disse, “ma così lontano non ho mai soffiato. Ma se vuoi ti posso accompagnare da mio fratello, il vento del nord, che è il più vecchio e il più forte di noi, e se lui non sa dov’è, allora non c’è nessuno al mondo che te lo possa dire. Puoi salirmi in groppa, ti porterò fin lì.”
Quando arrivarono dal vento del nord, quello era così furioso che il suo soffio gelido si sentiva da lontano. “Cosa volete?” gridò da lontano facendoli rabbrividire. “Ah, non essere così rigido” disse il vento del sud, “sono io, e poi c’è quella ragazza che avrebbe dovuto sposare il principe del castello a oriente del sole e a occidente della luna, e vuole chiederti se sei stato lì e se puoi indicarle la strada, perché vorrebbe tanto ritrovarlo”. “Certo che so dov’è” disse il vento del nord, “una volta ho soffiato fin lì una foglia e mi sono stancato tanto che dopo non ho avuto più la forza di soffiare per molti giorni. Ma se ci vuoi andare davvero e non hai paura di stare con me, ti prenderò in groppa e cercherò di soffiarti fin lì.” Sì, voleva e doveva andarci, se era possibile in qualche modo: di paura non ne aveva, anche se fosse andata male. “Bene, allora per questa notte dovrai dormire qui”, disse il vento del nord, “perché bisogna avere tutta la giornata, se vogliamo arrivare fin lì”.
La mattina dopo, il vento del nord la svegliò presto e si gonfiò tanto che diventò grande e forte da far paura; e così partirono, altri attraverso l’aria, come se dovessero arrivare in un attimo alla fine del mondo. Per le campagne ci fun una tale tempesta che buttò giù case e boschi, e quando arrivarono sul mare fecero naufragare navi a centinaia. E così andarono avanti, così lontano che nessuno può credere quanto siano andati lontano, e sempre sopra il mare, e il vento del nord era sempre più stanco, era così sfinito che quasi non riusciva più a soffiare e volava sempre più basso e alla fine volò così basso che la cima delle onde le lambiva i talloni. “Hai paura?” disse il vento del nord.No, rispose lei, non ne aveva. Ma ormai non erano lontani dalla terraferma, e il vento del nord ebbe la forza di gettare la ragazza sulla riva sotto le finestre del castello a oriente del sole e a occidente della luna: ma era così stanco e sfinito che dovette riposarsi per molti giorni prima di poter tornare a casa. La mattina dopo lei si mise a giocare con la mela d’oro davanti alle finestre del castello, e la prima cosa che vide fu la nasona che doveva sposare il principe. “Ehi tu, cosa vuoi in cambio della tua mela d’oro?” chiese quella dalla finestra. “Non è in vendita né per danaro né per oro” disse la ragazza. “E se non è in vendita né per danaro né per oro, allora cosa vuoi in cambio? Puoi avere quello che vuoi” disse la principessa. “Bè, se posso salire dal principe che abita qui e restare con lui questa notte, allora te la darò” rispose la fanciulla. Si, poteva anche farlo, era possibile. La principessa ebbe la mela d’oro, ma la sera, quando la ragazza salì nella stanza con il principe, quello dormiva; lo chiamò e lo scosse, e intanto piangeva, ma non riuscì a svegliarlo, perché la sera gli avevano dato un sonnifero.
Al mattino, appena si fece giorno, la principessa dal naso lungo, venne e la cacciò via. Allora ella, a giorno fatto, si mise a girare sotto le finestre del castello a far girare l’arcolaio, e tutto andò come la prima volta. La principessa chiese che cosa voleva in cambio, e lei rispose come il giorno prima che non era in vendita né per oro né per danaro, se però l’avesse lasciata salira dal principe e rimanere tutta la notte, lo avrebbe avuto. Ma quando salì, quello dormiva di nuovo e per quanto lei gridasse e lo scuotesse, e per quanto lei piangesse, lui dormiva e non c’era verso di svegliarlo; e quando si fece giorno venne la principessa dal naso lungo e la mise di nuovo alla porta. Durante il giorno la ragazza si mise sotto le finestre del castello e cominciò a filare con la sua conocchia d’oro, e la principessa dal naso lungo voleva averla. Aprì la finestra e le chiese cosa volesse in cambio, e proprio come le altre due volte, la ragazza disse che gliel’avrebbe concessa in cambio di una notte con il principe. La notte le fu concessa. Nel castello c’erano dei cristiani prigionieri, e stavano proprio nella stanza accanto a quella del principe: avevano sentito una donna piangere e gridare per due notti di seguito e lo dissero al principe. La sera, quando la principessa gli portò l’acquavite, lui fece finta di bere e se la gettò alle spalle, perché si era accorto che era un sonnifero. Così quando arrivò la ragazza, il principe era sveglio e lei gli raccontò come fosse arrivata fin lì. “Bè, arrivi proprio al momento giusto” disse il principe, “perché domani mi sarei dovuto sposare; ma io quella persona non la voglio e tu sei la sola che può salvarmi. Dirò che voglio vedere cosa sa fare la mia sposa e la pregherò di lavarmi la camicia con le tre macchie di sego: di certo accetterà, perché non sa che sei stata tu a fare le macchie e per toglierle ci vogliono dei cristiani, non dei troll come lei. Io allora dirò che voglio sposare solo chi sarà capace di togliermi quelle macchie: tu ne sei capace, lo so”. Ci fu grande gioia fra loro quella notte e il giorno dopo, giunta l’ora delle nozze, il principe disse: “Voglio vedere cosa sa fare la mia sposa.” Era giusto, disse la matrigna. “Ho una bella camicia che voglio mettere per sposarmi, ma ci sono tre macchie di sego che bisogna lavare e io ho promesso di sposare solo colei che saprà farlo: se non ne è capace, non vale la pena di averla in moglie.” Bè, pensavano che fosse una cosa da nulla e dissero di sì, e quella con il naso lungo si mise a lavare meglio che poteva, ma più lavava e strofinava, più le macchie diventavano grandi. “Ah, non sei capace di lavare” disse la vecchia troll, sua madre, “lascia fare a me!” Ma non aveva ancora preso in mano la camicia che fu ancora peggio, e più lavava e strofinava, più grandi e più nere si facevano le macchie. Allora dovettero mettersi a lavare gli altri troll, ma più passava il tempo e più la camicia diventava brutta, e alla fine sembrava tolta dalla cappa di un camino. “Ah, non siete buoni a nulla tutti quanti” disse il principe, “fuori da quella finestra c’è una stracciona: sono sicuro che lava molto meglio di tutti voi messi insieme. Ehi, tu, ragazza! Vieni dentro!” gridò. E lei entrò. “Sei capace di lavare questa camicia?” le chiese. “Ah non lo so,” rispose lei “ci proverò”. Aveva appena preso la camicia e l’aveva appena infilata nell’acqua che quella era bianca come la neve appena caduta, e ancora più bianca. “Sì, è proprio te che voglio sposare” disse il principe. Allora la vecchia troll si infuriò tanto che scoppiò, e credo che anche la principessa dal naso lungo e gli altri piccoli troll siano scoppiati, perché non ne ho più sentito parlare.
Il principe e la sua sposa liberarono tutti i cristiani prigionieri e portarono via tutto l’oro e l’argento che potevano portare e andarono a vivere molto lontano dal castello dal castello a oriente del sole e a occidente della luna.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il formidabile mondo di BO.La minestra puzzolente( da youtube-Rai sat yoyo)


Piumadoro e Piombofino ( di Guido Gozzano)

Piumadoro era orfana e viveva col nonno nella capanna del bosco. Il nonno era carbonaio ed essa lo aiutava nel raccattar fascine e nel far carbone. La bimba cresceva buona, amata dalle amiche e dalle vecchiette degli altri casolari, e bella, bella come una regina.
Un giorno di primavera vide sui garofani della sua finestra una farfalla candida e la chiuse tra le dita.
- Lasciami andare, per pietà!...
Piumadoro la lasciò andare.
- Grazie, bella bambina; come ti chiami?
- Piumadoro.
- Io mi chiamo Pieride del Biancospino. Vado a disporre i miei bruchi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E la farfalla volò via.
Un altro giorno Piumadoro ghermì, a mezzo il sentiero, un bel soffione niveo trasportato dal vento, e già stava lacerandone la seta leggera.
- Lasciami andare, per pietà!...
Piumadoro lo lasciò andare.
- Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
- Piumadoro.
- Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Achenio del Cardo. Vado a deporre i miei semi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E il soffione volò via.
Un altro giorno Piumadoro ghermì nel cuore d'una rosa uno scarabeo di smeraldo.
- Lasciami andare, per pietà!
Piumadoro lo lasciò andare.
- Grazie, bella bambina. Come ti chiami?
- Piumadoro.
- Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Cetonia Dorata. Cerco le rose di terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò.
E la cetonia volò via.

II

Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso.
Restava pur sempre la bella bimba bionda e fiorente, ma s'alleggeriva ogni giorno di più.
Sulle prime non se ne dette pensiero. La divertiva, anzi, l'abbandonarsi dai rami degli alberi altissimi e scender giù, lenta, lenta, lenta, come un foglio di carta. E cantava:
        Non altre adoro - che Piumadoro...
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
Ma col tempo divenne così leggera che il nonno dovette appenderle alla gonna quattro pietre perché il vento non se la portasse via. Poi nemmeno le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa.
- Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!
E il vecchio sospirava. E Piumadoro s'annoiava, così rinchiusa.
- Soffiami, nonno!
E il vecchio, per divertirla, la soffiava in alto per la stanza. Piumadoro saliva e scendeva, lenta come una piuma.
        Non altre adoro - che Piumadoro...
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
- Soffiami, nonno!
E il vecchio soffiava forte e Piumadoro saliva leggera fino alle travi del soffitto.
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
- Piumadoro, che cosa canti?
- Non son io. È una voce che canta in me.
Piumadoro sentiva, infatti, ripetere le parole da una voce dolce e lontanissima.
E il vecchio soffiava e sospirava:
- Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!...

III

Un mattino Piumadoro si svegliò più leggera e più annoiata del consueto.
Ma il vecchietto non rispondeva.
- Soffiami, nonno!
Piumadoro s'avvicinò al letto del nonno. Il nonno era morto.
Piumadoro pianse.
Pianse tre giorni e tre notti. All'alba del quarto giorno volle chiamar gente. Ma socchiuse appena l'uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, come una bolla di sapone...
Piumadoro gettò un grido e chiuse gli occhi.
Osò riaprirli a poco a poco, e guardare in giù, attraverso la sua gran capigliatura disciolta. Volava ad un'altezza vertiginosa.
Sotto di lei passavano le campagne verdi, i fiumi d'argento, le foreste cupe, le città, le torri, le abazie minuscole come giocattoli...
Piumadoro richiuse gli occhi per lo spavento, si avvolse, si adagiò nei suoi capelli immensi come nella coltre del suo letto e si lasciò trasportare.
- Piumadoro, coraggio!
Aprì gli occhi. Erano la farfalla, la cetonia ed il soffione.
- Il vento ci porta con te, Piumadoro. Ti seguiremo e ti aiuteremo nel tuo destino.
Piumadoro si sentì rinascere.
- Grazie, amici miei.
        Non altre adoro - che Piumadoro...
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
- Chi è che mi canta all'orecchio, da tanto tempo?
- Lo saprai verso sera, Piumadoro, quando giungeremo dalla Fata dell'Adolescenza.
Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, trasportati dal vento.

IV

Verso sera giunsero dalla Fata dell'Adolescenza. Entrarono per la finestra aperta.
La buona Fata li accolse benevolmente. Prese Piumadoro per mano, attraversarono stanze immense e corridoi senza fine, poi la Fata tolse da un cofano d'oro uno specchio rotondo.
- Guarda qui dentro.
Piumadoro guardò. Vide un giardino meraviglioso, palmizi e alberi tropicali e fiori mai più visti.
E nel giardino un giovinetto stava su di un carro d'oro che cinquecento coppie di buoi trascinavano a fatica. E cantava:
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
- Quegli che vedi è Piombofino, il Reuccio delle Isole Fortunate, ed è quegli che ti chiama da tanto tempo con la sua canzone. È vittima d'una malìa opposta alla tua. Cinquecento coppie di buoi lo trascinano a stento. Diventa sempre più pesante. Il malefizio sarà rotto nell'istante che vi darete il primo bacio.
La visione disparve e la buona Fata diede a Piumadoro tre chicchi di grano.
- Prima di giungere alle Isole Fortunate il vento ti farà passare sopra tre castelli. In ogni castello ti apparirà una fata maligna che cercherà di attirarti con la minaccia o con la lusinga. Tu lascerai cadere ogni volta uno di questi chicchi.
Piumadoro ringraziò la Fata, uscì dalla finestra coi suoi compagni e riprese il viaggio, trasportata dal vento.

V

Giunsero verso sera in vista del primo castello. Sulle torri apparve la Fata Variopinta e fece un cenno con le mani. Piumadoro si sentì attrarre da una forza misteriosa e cominciò a discendere lentamente. Le parve distinguere nei giardini volti di persone conosciute e sorridenti: le compagne e le vecchiette del bosco natìo, il nonno che la salutava.
Ma la cetonia le ricordò l'avvertimento della Fata dell'Adolescenza e Piumadoro lasciò cadere un chicco di grano. Le persone sorridenti si cangiarono subitamente in demoni e in fattucchiere coronate di serpi sibilanti.
Piumadoro si risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza.
Viaggiarono due altri giorni. Giunsero verso sera in vista del secondo castello.
Era un castello color di fiele, striato di sanguigno. Sulle torri la Fata Verde si agitava furibonda. Una turba di persone livide accennava tra i merli e dai cortili, minacciosamente.
Piumadoro cominciò a discendere, attratta dalla forza misteriosa. Terrorizzata lasciò cadere il secondo chicco. Appena il grano toccò terra il castello si fece d'oro, la Fata e gli ospiti apparvero benigni e sorridenti, salutando Piumadoro con le mani protese. Questa si risollevò e riprese il cammino trasportata dal vento; e capì che quello era il grano della Bontà.
Viaggia, viaggia, giunsero due giorni dopo al terzo castello. Era un castello meraviglioso, fatto d'oro e di pietre preziose.
La Fata Azzurra apparve sulle torri, accennando benevolmente verso Piumadoro.
Piumadoro si sentì attrarre dalla forza invisibile. Avvicinandosi a terra udiva un confuso clamore di risa, di canti, di musiche; distingueva nei giardini immensi gruppi di dame e di cavalieri scintillanti, intesi a banchetti, a balli, a giostre, a teatri.
Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l'ammonimento della Fata dell'Adolescenza, ed ella lasciò cadere, a malincuore, il terzo chicco di grano. Appena questo toccò terra, il castello si cangiò in una spelonca, la Fata Azzurra in una megera spaventosa e le dame e i cavalieri in poveri cenciosi e disperati che correvano piangendo tra sassi e roveti. Piumadoro, sollevandosi d'un balzo nell'aria, capì che quello era il Castello dei Desideri e che il chicco gettato era il grano della Saggezza.
Proseguì la via, trasportata dal vento.
La pieride, la cetonia ed il soffione la seguivano fedeli, chiamando a raccolta tutti i compagni che incontravano per via. Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine.
Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare.
Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali.
Viaggiarono così sette giorni.
All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.

VI


Nella Reggia si era disperati.
Il Reuccio Piombofino aveva sfondato col suo peso la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. Biondo, con gli occhi azzurri, tutto vestito di velluto rosso, Piombofino era bello come un dio, ma la malìa si faceva ogni giorno più perversa.
Ormai il peso del giovinetto era tale che tutti i buoi del Regno non bastavano a smuoverlo d'un dito.
Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiamati inutilmente intorno all'erede incantato.
        Non altre adoro - che Piumadoro...
        Oh! Piumadoro,
        bella bambina - sarai Regina.
E Piombofino affondava sempre più, come un mortaio di bronzo nella sabbia del mare.
Un mago aveva predetto che tutto era inutile, se l'aiuto non veniva dall'incrociarsi di certe stelle benigne.
La Regina correva ogni momento alla finestra e consultava a voce alta gli astrologhi delle torri.
- Mastro Simone! Che vedi, che vedi all'orizzonte?
- Nulla, Maestà... La Flotta Cristianissima che torna di Terra Santa.
E Piombofino affondava sempre.
- Mastro Simone, che vedi?...
- Nulla, Maestà... Uno stormo d'aironi migratori...
- Mastro Simone, che vedi?...
- Nulla, Maestà... Una galea veneziana carica d'avorio.
Il Re, la Regina, i ministri, le dame erano disperati.
Piombofino emergeva ormai con la testa soltanto; e affondava cantando:
       Oh! Piumadoro,
       bella bambina - sarai Regina.
S'udì, a un tratto, la voce di mastro Simone:
- Maestà!... Una stella cometa all'orizzonte! Una stella che splende in pieno meriggio!
Tutti accorsero alla finestra, ma prima ancora la gran vetrata di fondo s'aprì per incanto e Piumadoro apparve col suo seguito alla Corte sbigottita,
I soffioni le avevano tessuta una veste di velo, le farfalle l'avevano colorata di gemme. Le diecimila cetonie, cambiate in diecimila paggetti vestiti di smeraldo, fecero ala alla giovinetta che entrò sorridendo, bella e maestosa come una dea.
Piombofino, ricevuto il primo bacio di lei, si riebbe come da un sogno, e balzò in piedi libero e sfatato, tra le grida di gioia della Corte esultante.
Furono imbandite feste mai più viste. E otto giorni dopo Piumadoro la carbonaia sposava il Reuccio delle Isole Fortunate.